“Ma era il puzzo a tenerlo sveglio,il puzzo acuito da un’intollerabile idea di puzzo”.
LA VILLEGGIATURA IN PANCHINA
Marcovaldo, andando ogni giorno al lavoro, passa sotto una piazza alberata e pensa a come gli piacerebbe dormire sotto il cielo stellato e svegliarsi alla mattina con i raggi luminosi del sole, il cielo e gli alberi, con gli uccellini che cantano.
Una notte in cui non riesce a prendere sonno a causa dell’opprimente calura estiva cittadina, Marcovaldo, con il suo guanciale va in cerca di pace e di fresco su una panchina nella piazza alberata, ma la trova occupata da due innamorati. Quando finalmente dopo più di mezz’ora questa si libera, Marcovaldo si sdraia su di essa; ma per diversi motivi, come la luce del semaforo che lampeggia e il rumore sordo di un saldatore prodotto da una squadra di operai notturni, non riesce ad addormentarsi.
Dopo aver rimesso in funzione una fontana asciutta per procurarsi un suono di sottofondo simile al gorgoglìo di un torrente, finalmente prende sonno, ma il sogno di un lauto pranzo familiare si trasforma nell’incubo di portate costituite da carogne puzzolenti di topi e di gatti.
Svegliato da questo insopportabile fetore, si rende conto che l’odore ossessionante proviene in realtà dall’autocarro e dai furgoni che raccolgono i rifiuti per la città , scoperchiandone l’occulta immondizia.
Tamponandosi il naso con un mazzetto di ranuncoli profumati strappati da un’aiuola, Marcovaldo cerca di strappare ancora qualche oretta di sonno, ma è ormai l’alba e lo spruzzo di un idrante lo sveglia bruscamente , costringendolo a reinserirsi nella frenetica corsa quotidiana, assonnato e con la schiena a pezzi.
Testo completo
Andando ogni mattino al suo lavoro, Marcovaldo passava sotto il verde d’una piazza
alberata, un quadrato di giardino pubblico ritagliato in mezzo a quattro vie. Alzava l’occhio
tra le fronde degli ippocastani, dov’erano più folte e solo lasciavano dardeggiare gialli
raggi nell’ombra trasparente di linfa, ed ascoltava il chiasso dei passeri stonati ed invisibili
sui rami. A lui parevano usignoli; e si diceva: «Oh, potessi destarmi una volta al
cinguettare degli uccelli e non al suono della sveglia e allo strillo del neonato Paolino e
all’inveire di mia moglie Domitil–la!» oppure: «Oh, potessi dormire qui, solo in mezzo a
questo fresco verde e non nella mia stanza bassa e calda; qui nel silenzio, non nel
russare e parlare nel sonno di tutta la famiglia e correre di tram giù nella strada; qui nel
buio naturale della notte, non in quello artificiale delle persiane chiuse, zebrato dal
riverbero dei fanali; oh, potessi vedere foglie e ciclo aprendo gli occhi! » Con questi
pensieri tutti i giorni Marcovaldo incominciava le sue otto ore giornaliere – più gli
straordinari – di manovale non qualificato.
C’era, in un angolo della piazza, sotto una cupola d’ippocastani, una panchina appartata
e seminascosta. E Marcovaldo l’aveva prescelta come sua. In quelle notti d’estate, quando
nella camera in cui dormivano in cinque non riusciva a prendere sonno, sognava
la panchina come un senza tetto può sognare il letto d’una reggia. Una notte, zitto, mentre
la moglie russava ed i bambini scalciavano nel sonno, si levò dal letto, si vestì, prese
sottobraccio il suo guanciale, uscì e andò alla piazza.
Là era il fresco e la pace. Già pregustava il contatto di quegli assi d’un legno – ne era
certo – morbido e accogliente, in tutto preferibile al pesto materasso del suo letto;
avrebbe guardato per un minuto le stelle e avrebbe chiuso gli occhi in un sonno riparatore
d’ogni offesa della giornata.
Il fresco e la pace c’erano, ma non la panca libera. Vi sedevano due innamorati,
guardandosi negli occhi. Marcovaldo, discreto, si ritrasse. «È tardi, –pensò, – non
passeranno mica la notte all’aperto! La finiranno di tubare! »
Ma i due non tubavano mica: litigavano. E tra due innamorati un litigio non si può dire mai
a che ora andrà a finire.
Lui diceva: – Ma tu non vuoi ammettere che dicendo quello che hai detto sapevi di farmi
dispiacere anziché piacere come facevi finta di credere?
Marcovaldo capì che sarebbe andata per le lunghe.
– No, non l’ammetto, – rispose lei, e Marcovaldo già se l’aspettava.
– Perché non l’ammetti?
– Non l’ammetterò mai.
«Ahi», pensò Marcovaldo. Col suo guanciale stretto sotto il braccio, andò a fare un giro.
Andò a guardare la luna, che era piena, grande sugli alberi e i tetti. Tornò verso la
panchina, girando un po’ al largo per lo scrupolo di disturbarli, ma in fondo sperando di
dar loro un po’ di noia e persuaderli ad andarsene. Ma erano troppo infervorati nella
discussione per accorgersi di lui.
– Allora ammetti?
– No, no, non lo ammetto affatto! – Ma ammettendo che tu ammettessi?
– Ammettendo che ammettessi, non ammetterei quel che vuoi farmi ammettere tu!
Marcovaldo tornò a guardare la luna, poi andò a guardare un semaforo che c’era un po’
più in là. Il semaforo segnava giallo, giallo, giallo, continuando ad accendersi e
riaccendersi. Marcovaldo confrontò la luna e il semaforo. La luna col suo pallore
misterioso, giallo anch’esso, ma in fondo verde e anche azzurro, e il semaforo con quel
suo gialletto volgare. E la luna, tutta calma, irradiante la sua luce senza fretta, venata ogni
tanto di sottili resti di nubi, che lei con maestà si lasciava cadere alle spalle; e il semaforo
intanto sempre lì accendi e spegni, accendi e spegni, affannoso, falsamente vivace,
stanco e schiavo.
Tornò a vedere se la ragazza aveva ammesso: macché, non ammetteva, anzi non era più
lei a non ammettere, ma lui. La situazione era tutta cambiata, ed era lei che diceva a lui: –
Allora, ammetti? – e lui a dire di no. Così passò mezz’ora. Alla fine lui ammise, o lei,
insomma Marcovaldo li vide alzarsi e andarsene tenendosi per mano.
Corse alla panchina, si buttò giù, ma intanto, nell’attesa, un po’ della dolcezza che
s’aspettava di trovarvi non era più nella disposizione di sentirla, e anche il letto di casa
non lo ricordava più così duro. Ma queste erano sfumature, la sua intenzione di godersi la
notte all’aperto era ben ferma: sprofondò il viso nel guanciale e si dispose al sonno, a un
sonno come da tempo ne aveva smesso l’abitudine.
Ora aveva trovato la posizione più comoda. Non si sarebbe spostato d’un millimetro per
nulla al mondo. Peccato soltanto che a stare così, il suo sguardo non cadesse su di una
prospettiva d’alberi e ciclo soltanto, in modo che il sonno gli chiudesse gli occhi su una
visione di assoluta serenità naturale, ma davanti a lui si succedessero, in scorcio, un
albero, la spada d’un generale dall’alto del suo monumento, un altro albero, un tabellone
delle affissioni pubbliche, un terzo albero, e poi, un po’ più lontano, quella falsa luna
intermittente del semaforo che continuava a sgranare il suo giallo, giallo, giallo.
Bisogna dire che in questi ultimi tempi Marcovaldo aveva un sistema nervoso in così
cattivo stato che, nonostante fosse stanco morto, bastava una cosa da nulla, bastava si
mettesse in testa che qualcosa gli dava fastidio, e lui non dormiva. E adesso gli dava
fastidio quel semaforo che s’accendeva e si spegneva. Era laggiù, lontano, un occhio
giallo che ammicca, solitario: non ci sarebbe stato da farci caso. Ma Marcovaldo doveva
proprio essersi buscato un esaurimento: fissava quell’accendi e spegni e si ripeteva:
«Come dormirei bene se non ci fosse quell’affare! Come dormirei bene! » Chiudeva gli
occhi e gli pareva di sentire sotto le palpebre l’accendi e spegni di quello sciocco giallo;
strizzava gli occhi e vedeva decine di semafori; li riapriva, era sempre daccapo.
S’alzò. Doveva mettere uno schermo tra sé e il semaforo. Andò fino al monumento del
generale e guardò intorno. Ai piedi del monumento c’era una corona d’alloro, bella
spessa, ma ormai secca e mezzo spampanata, montata su bacchette, con un gran nastro
sbiadito: «7 Lancieri del Quindicesimo nell’Anniversario della Gloria». Marcovaldo
s’arrampicò sul piedistallo, issò la corona, la infilò alla sciabola del generale.
Il vigile notturno Tornaquinci in perlustrazione attraversava la piazza in bicicletta;
Marcovaldo s’appostò dietro la statua. Tornaquinci aveva visto sul terreno l’ombra del
monumento muoversi: si
fermò pieno di sospetto. Scrutò quella corona sulla sciabola, capì che c’era qualcosa fuori
posto, ma non sapeva bene che cosa. Puntò lassù la luce d’una lampadina a riflettore,
lesse: «I Lancieri del Quindicesimo nell’Anniversario della Gloria», scosse il capo in
segno d’approvazione e se ne andò.
Per lasciarlo allontanare, Marcovaldo rifece il giro della piazza. In una via vicina, una
squadra d’operai stava aggiustando uno scambio alle rotaie del tram. Di notte, nelle vie
deserte, quei gruppetti d’uomini accucciati al bagliore dei saldatori autogeni, e le voci che
risuonano e poi subito si smorzano, hanno un’aria segreta come di gente che prepari
cose che gli abitanti del giorno non dovranno mai sapere. Marcovaldo si avvicinò, stette a
guardare la fiamma, i gesti degli operai, con un’attenzione un po’ impacciata e gli occhi
che gli venivano sempre più piccoli dal sonno. Cercò una sigaretta in tasca, per tenersi
sveglio, ma non aveva cerini. – Chi mi fa accendere? – chiese agli operai. – Con questo?
–disse l’uomo della fiamma ossidrica, lanciando un volo di scintille.
Un altro operaio s’alzò, gli porse la sigaretta accesa. – Fa la notte anche lei?
– No, faccio il giorno, – disse Marcovaldo.
– E cosa fa in piedi a quest’ora? Noi tra poco si smonta.
Ritornò alla panchina. Si sdraiò. Ora il semaforo era nascosto alla sua vista; poteva
addormentarsi, finalmente.
Non aveva badato al rumore, prima. Ora, quel ronzio, come un cupo soffio aspirante e
insieme come un raschio interminabile e anche uno sfrigolio, continuava a occupargli gli
orecchi. Non c’è suono più struggente di quello d’un saldatore, una specie d’urlo La villeggiatura in panchina
sottovoce. Marcovaldo, senza muoversi, rannicchiato com’era sulla panca, il viso contro il
raggrinzito guanciale, non vi trovava scampo, e il rumore continuava a evocargli la scena
illuminata dalla fiamma grigia che spruzzava scintille d’oro intorno, gli uomini accoccolati
in terra col vetro affumicato davanti al viso, la pistola del saldatore nella mano mossa da
un tremito veloce, l’alone d’ombra intorno al carrello degli attrezzi, all’alto castello di
traliccio che arrivava fino ai fili. Aperse gli occhi, si rigirò sulla panca, guardò le stelle tra i
rami. I passeri insensibili continuavano a dormire lassù in mezzo alle foglie.
Addormentarsi come un uccello, avere un’ala da chinarci sotto il capo, un mondo di
frasche sospese sopra il mondo terrestre, che appena s’indovina laggiù, attutito e remoto.
Basta cominciare a non accettare il proprio stato presente e chissamai dove s’arriva: ora
Marcovaldo per dormire aveva bisogno d’un qualcosa che non sapeva bene neanche lui,
neppure un silenzio vero e proprio gli sarebbe bastato più, ma un fondo di rumore più
morbido del silenzio, un lieve vento che passa nel folto d’un sottobosco, o un mormorio
d’acqua che rampolla e si perde in un prato.
Aveva un’idea in testa e s’alzò. Non proprio un’idea, perché mezzo intontito dal sonno che
aveva in pelle in pelle, non spiccicava bene alcun pensiero; ma come il ricordo che là
intorno ci fosse qualche cosa connessa all’idea dell’acqua, al suo scorrere garrulo e
sommesso.
Difatti c’era una fontana, lì vicino, illustre opera di scultura e d’idraulica, con ninfe, fauni,
dèi fluviali, che intrecciavano zampilli, cascate e giochi d’acqua. Solo che era asciutta:
alla notte, d’estate, data la minor disponibilità dell’acquedotto, la chiudevano. Marcovaldo
girò lì intorno un po’ come un sonnambulo; più che per ragionamento per istinto sapeva
che una vasca deve avere un rubinetto. Chi ha occhio, trova quel che cerca anche a occhi
chiusi. Aperse il rubinetto: dalle conchiglie, dalle barbe, dalle froge dei cavalli si levarono
alti getti, i finti anfratti si velarono di manti scintillanti, e tutta quest’acqua suonava come
l’organo d’un coro nella grande piazza vuota, di tutti i fruscii e gli scrosci che può fare
l’acqua messi insieme. Il vigile notturno Tornaquinci, che ripassava in bicicletta nero nero
a mettere bigliettini sotto gli usci, al vedersi esplodere tutt’a un tratto davanti agli occhi la
fontana come un liquido fuoco d’artificio, per poco non cascò di sella.
Marcovaldo, cercando d’aprir gli occhi meno che poteva per non lasciarsi sfuggire quel
filo di sonno che gli pareva d’aver già acchiappato, corse a ributtarsi sulla panca. Ecco,
adesso era come sul ciglio d’un torrente, col bosco sopra di lui, ecco, dormiva.
Sognò un pranzo, il piatto era coperto come per non far raffreddare la pasta. Lo scoperse
e c’era un topo morto, che puzzava. Guardò nel piatto della moglie: un’altra carogna di
topo. Davanti ai figli, altri topini, più piccoli ma anch’essi mezzo putrefatti. Scoperchiò la
zuppiera e vide un gatto con la pancia all’aria, e il puzzo lo svegliò.
Poco distante c’era il camion della nettezza urbana che va la notte a vuotare i tombini dei
rifiuti. Distingueva, nella mezzaluce dei fanali, la gru che gracchiava a scatti, le ombre
degli uomini ritti in cima alla montagna di spazzatura, che guidavano per mano il
recipiente appeso alla carrucola, lo rovesciavano nel camion, pestavano con colpi di pala,
con voci cupe e rotte come gli strappi della gru: – Alza… Molla… Va’ in malora… – e certi
cozzi metallici come opachi gong, e il riprendere del motore, lento, per poi fermarsi poco
più in là e ricominciare la manovra.
Ma il sonno di Marcovaldo era ormai in una zona in cui i rumori non lo raggiungevano più,
e quelli poi, pur così sgraziati e raschianti, venivano come fasciati da un alone soffice
d’attutimento, forse per la consistenza stessa della spazzatura stipata nei furgoni: ma era
il puzzo a tenerlo sveglio, il puzzo acuito da un’intollerabile idea di puzzo, per cui anche i
rumori, quei rumori attutiti e remoti, e l’immagine in controluce dell’autocarro con la gru
non giungevano alla mente come rumore e vista ma soltanto come puzzo. E Marcovaldo
smaniava, inseguendo invano con la fantasia delle narici la fragranza d’un roseto.
Il vigile notturno Tornaquinci si sentì la fronte madida di sudore intravedendo un’ombra
umana correre carponi per un’aiolà, strappare rabbiosamente dei ranuncoli e sparire. Ma
pensò essersi trattato o d’un cane, di competenza degli accalappiacani, o
d’un’allucinazione, di competenza del medico alienista, o d’un licantropo, di competenza
non si sa bene di chi ma preferibilmente non sua, e scantonò.
Intanto, Marcovaldo, ritornato al suo giaciglio, si premeva contro il naso il convulso mazzo
di ranuncoli, tentando di colmarsi l’olfatto del loro profumo: poco ne poteva però spremere
da quei fiori quasi inodori; ma già la fragranza di rugiada, di terra e d’erba pesta era un
gran balsamo. Cacciò l’ossessione dell’immondizia e dormì. Era l’alba.
Il risveglio fu un improvviso spalancarsi di ciclo pieno di sole sopra la sua testa, un sole
che aveva come cancellato le foglie e le restituiva alla vista semicieca a poco a poco. Ma
Marcovaldo non poteva indugiare perché un brivido l’aveva fatto saltar su: lo spruzzo d’un
idrante, col quale i giardinieri del Comune innaffiano le aiole, gli faceva correre freddi
rivoli giù per i vestiti. E intorno scalpitavano i tram, i camion dei mercati, i carretti a mano,
i furgoncini, e gli operai sulle biciclette a motore correvano alle fabbriche e le
saracinesche dei negozi precipitavano verso l’alto, e le finestre delle case arrotolavano le
persiane, e i vetri sfavillavano. Con la bocca e gli occhi impastati, stranito, con la schiena
dura e un fianco pesto, Marcovaldo correva al suo lavoro.